CESARE, ANTONIO, CICERONE, BRUTO, CASSIO, CIMBRO, SENATORI. Tutti seduti.
CESARE
Padri illustri, a consesso oggi vi appella
il dittator di Roma. È ver, che rade
volte adunovvi Cesare: ma soli
n’eran cagione i miei nemici e vostri,
che depor mai non mi lasciavan l’armi,
se prima io ratto infaticabilmente
a debellargli appien dal Nilo al Beti
non trascorrea. Ma al fin, concesso viemmi,
ciò che bramai sovra ogni cosa io sempre,
giovarmi in Roma del romano senno;
e, ridonata pria Roma a se stessa,
consultarne con voi. – Dal civil sangue
respira or ella; e tempo è omai, che al Tebro
ogni uom riabbia ogni suo dritto, e quindi
taccia il livor della calunnia atroce.
Non è, non è (qual grido stolto il suona)
Roma in nulla scemata: al sol suo nome,
infra il Tago, e l’Eufrate; infra l’adusta
Siene, e la divisa ultima ignota
boreale Albione; al sol suo nome,
trema ogni gente: e vie piú trema il Parto,
da ch’ei di Crasso è vincitore; il Parto,
che sta di sua vittoria inopinata
stupidamente attonito; e ne aspetta
il gastigo da voi. Null’altro manca
alla gloria di Roma; ai Parti e al mondo
mostrar, che lá cadean morti, e non vinti,
quei romani soldati, a cui fea d’uopo
romano duce, che non d’auro avesse,
ma di vittoria, sete. A tor tal onta,
a darvi in Roma il re dei Parti avvinto,
io mi appresto; o a perir nell’alta impresa.
A trattar di tal guerra, ho scelto io questo
tempio di fausto nome: augurio lieto
per noi sen tragga: ah! sí; concordia piena
infra noi tutti, omai fia sola il certo
pegno del vincer nostro. Ad essa io dunque
e vi esorto, e vi prego. – Ivi ci appella
l’onor di Roma, ove l’oltraggio immenso
ebber l’aquile invitte: a ogni altro affetto
silenzio impon l’onor per ora. In folla
arde il popol nel foro; udir sue grida
di qui possiam; che a noi vendetta ei pure
chiede (e la vuol) dei temerarj Parti.
Risolver dunque oggi dobbiam dell’alta
vendetta noi, pria d’ogni cosa. Io chieggo
dal fior di Roma (e, con romana gioja,
chiesto a un tempo e ottenuto, io giá l’ascolto)
quell’unanime assenso, al cui rimbombo
sperso fia tosto ogni nemico, o spento.
CIMBRO
Di maraviglia tanta il cor m’inonda
l’udir parlar di unanime consenso,
ch’io qui primo rispondo; ancor che a tanti
minor, tacer me faccia uso di legge.
Oggi a noi dunque, a noi, giá da tanti anni
muti a forza, il parlare oggi si rende?
Io primier dunque, favellar mi attento:
io, che il gran Cato infra mie braccia vidi
in Utica spirare. Ah! fosser pari
mie’ sensi a’ suoi! Ma in brevitá fien pari,
se in altezza nol sono. – Altri nemici,
altri obbrobrj, altre offese, e assai piú gravi,
Roma punire e vendicar de’ pria
che pur pensare ai Parti. Istoria lunga,
dai Gracchi in poi, fian le romane stragi.
Il foro, i templi suoi, le non men sacre
case, inondar vedea di sangue Roma:
n’è tutta Italia, e n’è il suo mar cosperso:
qual parte omai v’ha del romano impero,
che non sia pingue di romano sangue?
Sparso è forse dai Parti? – In rei soldati
conversi tutti i cittadin giá buoni;
in crudi brandi, i necessarj aratri;
in mannaje, le leggi; in re feroci
i capitani: altro a patir ne resta?
Altro a temer? – Pria d’ogni cosa, io dunque
dico, che il tutto nel primier suo stato
tornar si debba; e pria rifarsi Roma,
poi vendicarla. Il che ai Romani è lieve.
ANTONIO
Io, consol, parlo; e spetta a me: non parla
chi orgogliose stoltezze al vento spande;
né alcun lo ascolta. – È mio parere, o padri,
che quanto il nostro dittatore invitto
chiede or da noi, (benché eseguire il possa
ei per se stesso omai) non pure intende
a tutta render la sua gloria a Roma,
ma che di Roma l’esser, la possanza,
la securtá ne pende. Invendicato
cadde in battaglia un roman duce mai?
Di vinta pugna i lor nemici mai
impuniti ne andar presso ai nostri avi?
Per ogni busto di roman guerriero,
nemiche teste a mille a mille poscia
cadean recise dai romani brandi.
Or, ciò che Roma, entro al confin ristretta
d’Italia sola, assentir mai non volle,
il soffrirebbe or che i confin del mondo
di Roma il sono? E, sorda fosse anch’ella
a sue glorie; poniam, che il Parto andarne
impunito lasciasse; a lei qual danno
non si vedria tornar dal tristo esemplo?
Popoli molti, e bellicosi, han sede
fra il Parto e noi: chi, chi terralli a freno,
se dell’armi romane il terror tace?
Grecia, Illiria, Macedoni, Germani,
Galli, Britanni, Ispani, Affrica, Egitto,
guerriera gente, che oltraggiata, e vinta,
d’ogni intorno ne accerchia, a Roma imbelle
vorrian servir? né un giorno sol, né un’ora.
Oltre all’onor, dunque innegabil grave
necessitade a vol nell’Asia spinge
l’aquile nostre a debellarla. – Il solo
duce a tanta vendetta a sceglier resta. -,
Ma al cospetto di Cesare, chi duce
osa nomarsi? – Altro eleggiamne, a patto,
ch’ei di vittorie, e di finite guerre,
e di conquiste, e di trionfi, avanzi
Cesare; o ch’anco in sol pugnar lo agguagli. –
Vile invidia che val? Cesare, e Roma,
sono in duo nomi omai sola una cosa;
poiché a Roma l’impero alto del mondo
Cesare sol rende, e mantiene. Aperto
nemico è dunque or della patria, iniquo
traditor n’è, chi a sua privata e bassa
picciola causa, la comun grandezza
e securtá posporre, invido, ardisce.
CASSIO
Io quell’iniquo or dunque, io sí, son quello,
cui traditore un traditore appella.
Primo il sono, e men vanto; or che in duo nomi
sola una cosa ell’è Cesare e Roma. –
Breve parla chi dice. Altri qui faccia,
con servili, artefatti, e vuoti accenti,
suonar di patria il nome: ove pur resti
patria per noi, su i casi suoi si aspetta
il risolvere ai padri; in nome io ‘l dico
di lor; ma ai veri padri; e non, com’ora,
adunati a capriccio; e non per vana
forma a scherno richiesti; e non da vili
sgherri infami accerchiati intorno intorno,
e custoditi; e non in vista, e quasi
ascoltati da un popolo mal compro
da chi il pasce e corrompe. È un popol questo?
Questo, che libertade altra non prezza,
né conosce, che il farsi al bene inciampo,
e ad ogni male scudo? ei la sua Roma
nei gladiator del circo infame ha posta,
e nella pingue annona dell’Egitto.
Da una tal gente pria sgombro il senato
veggasi, e allor ciascun di noi si ascolti. –
Preaccennare il mio parer frattanto
piacemi, ed è: Che dittator non v’abbia,
poiché guerra or non v’ha; che eletti sieno
consoli giusti; che un senato giusto
facciasi; e un giusto popolo, e tribuni
veri il foro rivegga. Allor dei Parti
deliberar può Roma; allor, che a segni
certi, di nuovo riconoscer Roma
noi Romani potremo. Infin che un’ombra
vediam di lei fallace, i veri, e pochi
suoi cittadini apprestinsi per essa
a far gli ultimi sforzi; or che i suoi tanti
nemici fan gli ultimi lor contr’essa.
CICERONE
Figlio di Roma, e non ingrato, io l’amo
piú che me stesso: e Roma, il dí che salva
dall’empia man di Catilina io l’ebbi,
padre chiamommi. In rimembrarlo, ancora
di tenerezza e gratitudin sento
venirne il dolce pianto sul mio ciglio.
Sempre il pubblico ben, la pace vera,
la libertá, fur la mia brama; e il sono.
Morire io solo, e qual per Roma io vissi,
per lei deh possa! oh qual mi fia guadagno,
s’io questo avanzo di una trista vita
per lei consunta, alla sua pace io dono! –
Pel vero io parlo; e al canuto mio crine
creder ben puossi. Il mio parlar non tende,
né a piú inasprir chi dagli oltraggi molti
sofferti a lungo, inacerbita ha l’alma
giá di bastante, ancor che giusto, sdegno;
né a piú innalzare il giá soverchio orgoglio
di chi signor del tutto omai si tiene.
A conciliar (che ancor possibil fora)
col ben di ognuno il ben di Roma, io parlo. –
Giá vediam da gran tempo i tristi effetti
del mal fra noi snudato acciaro. I soli
nomi dei capi infrangitor di leggi
si andar cangiando, e con piú strazio sempre
della oppressa repubblica. Chi l’ama
davver fra noi, chi è cittadin di cuore,
e non di labro, ora il mio esemplo siegua.
Fra i rancor cupi ascosi, infra gli atroci
odj palesi, infra i branditi ferri,
(se pur l’Erinni rabide li fanno
snudar di nuovo) ognun di noi frapponga
inerme il petto: o ricomposti in pace
fian cosí quei discorsi animi feri;
o dalle inique spade trucidati
cadrem noi soli; ad onta lor, Romani
soli, e veraci, noi. – Son questi i sensi,
questi i sospiri, il lagrimare è questo
di un cittadin di Roma: al par voi tutti,
deh! lo ascoltate: e chi di gloria troppa
è carco giá, deh! non la offuschi, o perda,
tentando invan di piú acquistarne: e quale
all’altrui gloria invidia porta, or pensi
che invidia no, ma virtuosa eccelsa
gara in ben far, può sola i propri pregi
accrescer molto, e in nobil modo e schietto
scemar gli altrui. – Ma, poiché omai ne avanza
tanto in Roma a trattar, dei Parti io stimo,
per or si taccia. Ah! ricomposta, ed una,
per noi sia Roma; e ad un suo sguardo tosto,
Parti, e quanti altri abbia nemici estrani,
spariscon tutti, come nebbia al vento.
BRUTO
Cimbro, Cassio, e il gran Tullio, hanno i loro alti
romani sensi in sí romana guisa
esposti omai, che nulla a dir di Roma,
a chi vien dopo, resta. Altro non resta,
che a favellar di chi in se stesso ha posta
Roma, e neppur dissimularlo or degna. –
Cesare, a te, poiché in te solo è Roma,
di Roma no, di te parlare io voglio. –
Io non t’amo, e tu il sai; tu, che non ami
Roma; cagion del non mio amarti, sola:
te non invidio, perché a te minore
piú non mi estimo, da che tu sei fatto
giá minor di te stesso; io te non temo,
Cesare, no; perché a morir non servo
son presto io sempre: io te non odio, al fine,
perché in nulla ti temo. Or dunque, ascolta
qui il solo Bruto; e a Bruto sol dá fede;
non al tuo consol servo, che sí lungi
da tue virtudi stassi, e sol divide
teco i tuoi vizi, e gli asseconda, e accresce. –
Tu forse ancor, Cesare, merti (io ‘l credo)
d’esser salvo; e il vorrei; perché tu a Roma
puoi giovar, ravvedendoti: tu il puoi,
come potesti nuocerle giá tanto.
Questo popol tuo stesso, (al vivo or dianzi
Cassio il ritrasse) il popolo tuo stesso,
ha pochi dí, del tuo poter ti fea
meno ebro alquanto. Udito hai tu le grida
di popolare indegnazione, il giorno,
che, quasi a giuoco, il regio serto al crine
leggiadramente cingerti tentava
la maestá del consol nuovo: udito
hai fremer tutti; e la regal tua rabbia
impallidir te fea. Ma il serto infame,
cui pur bramavi ardentemente in cuore,
fu per tua man respinto: applauso quindi
ne riscotevi universal; ma punte
eran mortali al petto tuo, le voci
del tuo popol, che in ver non piú romano,
ma né quanto il volevi era pur stolto.
Imparasti in quel dí, che Roma un breve
tiranno aver, ma un re non mai, potea.
Che un cittadin non sei, tu il sai, pur troppo
per la pace tua interna: esser tiranno
pur ti pesa, anco il veggio: e a ciò non eri
nato tu forse; or, s’io ti abborra, il vedi.
Svela su dunque, ove tu il sappi, a noi,
ed a te stesso in un, ciò ch’esser credi,
ciò ch’esser speri. – Ove nol sappi, impara,
tu dittator dal cittadino Bruto,
ciò ch’esser merti. Cesare, un incarco,
alto piú assai di quel che assumi, avanza.
Speme hai di farti l’oppressor di Roma;
liberator fartene ardisci, e n’abbi
certezza intera. – Assai ben scorgi, al modo
con cui Bruto ti parla, che se pensi
esser giá fatto a noi signor, non io
suddito a te per anco esser mi estimo.
ANTONIO
Del temerario tuo parlar la pena,
in breve, io ‘l giuro…
CESARE
Or basti. – Io nell’udirvi
sí lungamente tacito, non lieve
prova novella ho di me dato; e, dove
me signor d’ogni cosa io pur tenessi,
non indegno il sarei; poich’io l’ardito
licenzioso altrui parlare osava,
non solo udir, ma provocare. A voi
abbastanza pur libera non pare
quest’adunanza ancor; benché d’oltraggi
carco v’abbiate il dittator, che oltraggi
può non udir, s’ei vuole. Al sol novello,
lungi dal foro, e senza armate scorte
che voi difendan dalla plebe, io, dunque
entro alla curia di Pompeo v’invito
a consesso piú franco. Ivi, piú a lungo,
piú duri ancora e piú insultanti detti,
udrò da voi: ma quivi, esser de’ fermo
il destino dei Parti. Ove ai piú giovi,
non io dissento, ch’ivi fermo a un tempo
sia, ma dai piú, di Cesare il destino.