Filippo dolcissimo amico,

Mi accingo a narrarti brevemente gli avvenimenti della mia vita: non mosso dalla stima o da un interesse o diletto che a te possa venire da simili vanità ma stimolato dal desiderio vivissimo di far passare sotto i tuoi occhi quasi in ordinata mostra quelle cose, che di me e del mio carattere sappiano farti fede, dandotene quasi la stessa notizia che avresti potuto raccogliere, dove tu avessi convissuto sempre con me. Nessuna parola io impiegherò per cattivarmi anticipatamente la tua fiducia. La schietta e disadorna esposizione dei fatti saprà in progresso meritarmela: e se mi ti mostrerò quale fui quando potei meritare laude, non mi ti nasconderò laddove mi resi degno di biasimo, contrapponendo cosí ingenuamente quelle circostanze, dalle quali l’umano amor proprio suole essere e lusingato ed offeso. Preparati dunque a conoscere colui, del quale non conoscesti sinora che il nome, ma disponiti insieme a rattristarti, leggendo di quali amarezze sia la di lui storia consparsa.

Io nacqui a Roma di parenti romani. La mia famiglia paterna colla professione dell’arte de’ computi si era procacciata qualche stima, e fortuna, accresciuta poi da Gaudenzio Belli mio genitore col traffico e coll’esercizio di pubblici ministeri. La famiglia di mia madre attese sempre ai traffichi di banca, dei quali attualmente un mio zio sta godendo in Napoli i splendidi lucri.

I miei primi anni passarono presso a poco cosí puerilmente come quelli di tutti i fanciulli, se non ché forse piú precoci che agli altri non sogliono in me si mostrarono i preludi degli affetti e delle passioni che mi avrebbero poscia agitato. La compassione e la generosità pullulando già nel mio tenero animo, facevano travedere quanto io avrei saputo sacrificare a’ miei simili: ma lo sdegno e l’amore di vendetta sollevandosi ferocemente nel mio piccolo cuore, distruggevano od almeno paralizzavano cosí belle speranze.

Una eccessiva dose di amor proprio unita a qualche penetrazione ed a piccola stima delle altrui facoltà intellettuali mi facevano sempre comparire la mia opinione per la migliore di tutte, ed in essa stabilirmi tenacemente, ed in ogni incontro difenderla con alacrità di parole e di atti. L’interesse non fu mai per me un ente, ma sí la invidia per ciò solo che procacciare potesse fama ed onore. Non mai menzognero, ignorava come si potesse celare la verità anche pe’ propi vantaggi: bastava guardarmi nel volto per avere da me un’aperta confessione de’ segreti del mio cuore. Amico della giustizia e nemico implacabile dell’adulazione io cadeva nello estremo opposto di non laudare quasi mai per timore di farlo in onta dell’una e in favore dell’altra. Ti taccio molte altre mie morali qualità, potendo bastare queste per farti conoscere a sufficienza, che se in me la Natura racchiuse qualche parte di buono, questa era veramente dalla cattiva superato.

Ma Iddio che non volle la mia rovina mi sottopose ad un padre che colla sua austerità valse a temperare cosí il carattere mio, che i prosperi semi vi fece germogliare ed a’ malvaggi mancare alimento. Non mai io lo vidi sorridermi, rado compiacermi, e sempre sollecito a mortificarmi nell’amor proprio, cioè nel mio lato il piú sensitivo. Ricorderò sempre con orrore il gastigo da lui datomi nella età di sette anni a pena di essermi ritenuto con silenzio un soldo da me trovato sopra la di lui scrivania. Mi rinchiuse solo per due giorni in una camera oscura con vitto di pane ed acqua, e poi al terzo giorno trasportato da quella in un’altra, in presenza di circa venti persone tutte consanguinee mi udii accusare dal mio genitore di furto: e obbligato di riporre quel soldo nel luogo là donde avevalo tolto, dovetti, genuflesso a terra, confessarmi per ladro. Quale orribile confusione! Ma benedico adesso quella mano di ferro, che allora si aggravava sopra di me, perché nella strada della virtú non fossi poi vacillante.

Alieno da’ fanciulleschi trastulli io donava sempre al mio fratello, a me minore di un anno tutto ciò che per sollazzarmi mi porgeva giornalmente la tenerezza materna: ed istruito di buon’ora nell’arte di leggere, io andava disfogando in questa il bollore di una impetuosa curiosità di sapere, fomentando insieme la mia innata inclinazione alla solitudine ed al silenzio. Questo disordinato amore di lettura, e la povertà di ogni sperienza, facendomi sempre afferrare senza scelta e con avidità qualunque libro potesse casualmente cadermi fra le mani, mi riempirono ben presto di idee troppo bizzarre, ed avvilupparono la mia fervida fantasia fra i delirj dei romanzi ed i progetti dell’ambizione.

Giunto cosí all’adolescenza si erano già in me sviluppati i germi delle mie inclinazioni, ed io non parlava che di pittura, di musica, di poesia, di letteratura, di scienze e di viaggi.

Ma i progetti de’ miei parenti di troppo contrastavano ai miei; e mentre nel caldo del mio cervello io sognava nuovi mondi e nuove corone, il freddo calcolo di mio padre mi preparava un libro mastro, al quale io sarei stato poco appresso condannato, senza quegli strepitosi avvenimenti, che tutta sconvolgendo la Europa cangiarono affatto gli interni sistemi della nostra famiglia.

Tu sai, che poco dopo scoppiata la sanguinosa rivoluzione di Francia, torrenti di arme calarono in Italia ed inondarono Roma e le piú belle provincie. Fu allora che agli sforzi del Pontefice quelli si accoppiarono della Casa Siciliana, onde liberarsi dalla straniera violenza; e Carolina d’Austria in que’ dí moglie di Ferdinando quarto di Borbone spedí da Napoli a Roma il generale Gennaro Valentini giovane bellissimo e di lei molto amorevole, perché segretamente trattasse dei modi più atti a discacciare dal suolo d’Italia la idra formidabile, che a’ danni nostri si vedeva menare le velenose sue lingue. Il generale dunque, come cugino di mio padre per canto materno, avuto nella nostra casa un misterioso ricetto ne fece il centro de’ suoi consigli, ed il deposito de’ Regi dispaccj. Né molto andò oltre il segreto; perché giunte da Napoli le formidabili forze, alle quali egli era preposto duce supremo; manifestandosi, uscí con esse in campo; e, rotta la piccola guarnigione della Repubblica francese, sgombrò Roma dagl’invasori e se ne proclamò giuridicamente comandante interino, sotto gli ordini di un Naselli sopravvenuto col grosso dell’esercito del Mezzogiorno. I francesi però ingrossatisi coi presidj che dei loro raccoglievano ovunque, presto ricomparvero piú feroci, e con onta e scorno indelebili del nome partenopeo, quasi senza un colpo di cannone né un lampo di spada ritolsero ai nemici la preda. Ottantamila soldati fuggirono avanti a seimila; ed il misero Valentini da tutti abbandonato e solo, non trovò altro scampo alla sua vita, che nella nostra fedele ospitalità. Ma sempre il suo asilo non poteva rimanere celato: per lo che, aperte negoziazioni col generale francese, al quale già prima da lui battuto aveva generosamente concesso sicurezza di vita, e libertà di persona; facilmente ne ottenne in contracambio di potersene ritornare salvo e rispettato alla sua patria, e ne ricevette in garanzia un autentico passaporto. Forse troppo, o caro amico, io ti sembro diffondermi in questi politici racconti; ma mi è mestieri di bene descriverti la fonte primaria di tutte le mie successive calamità. In que’ giorni mia Madre soprappresa da un súbito terrore per la propria sicurezza, chiarí la sua determinata volontà di abbandonare la sua patria. A nulla valsero le preghiere del marito: a nulla le lagrime de’ figliuoli. Rimase ferma nella sua risoluzione, e conducendo me ancora fanciullo, partimmo subito alla volta di Napoli precedendo di poco il mio zio cugino il generale Valentini. Le nostre cose piú preziose ci seguirono, e delle altre nostre proprietà rimase in Roma custode mio padre, che seco ritenne il mio minore fratello. Era necessaria la di lui permanenza e per le accennate ragioni e per non accrescere troppo colla sua fuga il sospetto, di cui già qualche lampo traluceva nelle autorità governative.

Noi dunque partimmo. Ah mai non avessimo mosso quel primo passo fatale! Inorridisci quí, o dilettissimo amico, tu, il cui bell’animo cosí dai tradimenti rifugge. Uscito appena il Valentini dalla città dalla porta di San Giovanni, fu preso, e contro ogni data fede, ed ogni dritto delle genti ricondotto in Roma, e fucilato nel seguente giorno sulla piazza di Monte Citorio. Egli andò al supplicio da eroe. Rivestito di tutte le divise del suo grado, volle senza benda guardare fermo quelle armi, dalle quali egli stesso invocò il foco e la morte.

Noi informati del barbaro caso precipitammo la fuga scortati dal cameriere dello sventurato Valentini; ed arrivati ad una locanda del Regno, ivi stanca volle mia Madre fermarsi, e trapassare la notte. Cosí andammo a riposarci, ignari della nuova disgrazia che ci soprastava nel sonno: poiché all’apparire del giorno risvegliatici, non trovammo piú né i nostri bagagli né quello scellerato servo, nel quale cosí a torto avevamo riposto fiducia. Di poco meno che di 10.000 scudi fu il danno del furto. Soli e privi di tutto fummo costretti proseguire il viaggio sino a Napoli, ove accolti in casa del banchiere fratello germano di mia madre, ricevemmo in prestito vesti per mutarci, e danari per soddisfare il nolo della nostra vettura. Passammo là due giorni in una certa bugiarda tranquillità, ma divolgata col terzo la tragedia del misero Generale; i Napolitani, che lo amavano, cominciarono irragionevolmente a sollevarsi, e scoppiò cosí quella funesta rivolta, nella quale furono commessi tanti atroci misfatti. Mia madre sospettata complice colla mia famiglia del tradimento di Valentini fu dichiarata vittima di una ingiusta vendetta, e bastarono appena i sacri recessi di un convento di monache per salvare la sua e la mia vita dall’ebbrezza di quel popolare furore. Ecco come si fondano gli umani giudizj! Noi abbandonammo Roma per sottrarci all’ira di una fazione, e ci ponemmo fra gli artigli dell’altra, la quale, lungi dal perseguitarci, avrebbe anzi dovuto concederci pietosa accoglienza e conforto delle sofferte sciagure. Ma intanto che a Napoli si minacciavano i nostri giorni, si consumavano contro di noi a Roma gli atti, che contro i ribelli soglionsi praticare. Confiscati i nostri beni, sigillati i nostri domestici arredi, fu mio padre dichiarato nemico della Repubblica, e mia Madre emigrata e proscritta. Calmata però la violenza di que’ primi moti, e consolidate alla meglio le basi della usurpazione, risuonò ovunque col nome augusto di libertà il solenne grido di una generale amnistia, smentita ogni giorno da nuovi spargimenti di sangue. Comunque però la cosa si fosse, la verità è che i francesi, penetrato il Regno, giunsero a Napoli e, dopo alcuni mesi, venne rivocata la nostra proscrizione, furono rimossi i sigilli, e la nostra famiglia si riuní tutta finalmente fra le domestiche mura.

Si erano cosí provvisoriamente composte le cose politiche e noi non soffrivamo piú fuorché la estrema penuria, che di ogni vettovaglia per lo Stato tutto rapidamente si estese. Ma la opinione de’ popoli in nulla favorevole a quel fanatismo di bugiarda eguaglianza, presto doveva atterrare un colosso innalzato sopra fragili piedi di creta. Vennero i Russi, tornarono i Napolitani, e la Repubblica Romana ebbe nella sua culla il sepolcro. Presto si aprí a Venezia il Conclave, ed innalzato alla cattedra di S. Pietro Gregorio Barnaba Chiaramonti che attualmente vi siede. Questo avvenimento fece concepire alla mia casa le piú fauste speranze. Ed infatti venuto a Roma il nuovo Pontefice ricevette subito a pro di mio padre graziosissimi uficj della Regina di Napoli, e poco appresso lo nominò ad un onorevole carico nella città, e Darsena di Civitavecchia. Pieni di allegrezza noi ci transferimmo alla nostra novella residenza insieme con un vero amico di mio padre, col quale coabitavamo, ed avevamo di tutto perfetta comunione. In quella città vivevamo nei piú salubri mesi dell’anno, vivendo gli altri sei sotto il meno impuro cielo di Roma. Tre anni trapassammo in questi tragitti, de’ quali ricorderò sempre il piú segnalato per un assassinio sofferto da sette masnadieri mascherati, che di bel giorno e fin sotto a Civitavecchia, ci avevano teso l’aguato. Tra effetti di valore e di uso, computammo la perdita scendere a circa settemila scudi.

Per quanta diligenza però da noi si adoperasse in allontanarci di là nella state onde evitare i morbosi effetti che di quella stagione se ne risentono, pure io vi contrassi una pertinace febbre, la quale mi travagliò fin oltre i due anni. Ma non al grave rubamento, e non alla mia febbre ostinata si limitò contro di noi l’odio della sorte, che aveva già diliberato di rendere la città di Civitavecchia quasi il teatro della nostra rovina. Fa mestieri tu sappia, o mio caro, che durante il breve corso della nostra felicità molte persone si andarono attorno a noi raggirando per partecipare del sorriso di nostra fortuna. Ci avessi veduto circondati di notte e di giorno di lodatori blandissimi, pieni tutti di amicizia sul labbro, e di sincerità sulla fronte. Non altro che canti e viva di gioja si udivano risuonare fra i nostri muri: e sempre in giuochi e in conviti vi si trapassava il corto beneficio del tempo. Mio padre era divenuto l’idolo de’ parasiti; e mia Madre, per se stessa anche bella, l’oggetto degli incensi della galante adulazione. Io, benché ancora fanciullo, condannava altamente nel cuore la condotta de’ miei, che spinti dal disío virtuoso di splendidezza, trascendevano in una viziosa prodigalità. Annojato da uno strepito cosf contrario al mio innato amore per le cose tranquille, me ne sottraeva a mia posta, e scendeva, particolarmente nelle prime ore notturne, a sedermi tutto soletto sulla silenziosa spiaggia del mare. Quivi in pace io nudriva le mie care idee malinconiche; ed al fine delle mie meditazioni, spesso spesso senza neppure saperne il motivo, mi ritrovava umidi gli occhi di pianto.

Ma continuiamo il racconto. Tra la numerosa folla degli amici della nostra prosperità, cinque principalmente se ne vuol noverare, i quali piú degli altri esperti nelle arti cortigianesche seppero abbagliare i creduli occhi di mio padre, quindi sedurlo e finalmente vincerne e dominarne lo spirito. Tutti miserabili costoro, quali per le rovinose circostanze de’ tempi e quali per le conseguenze della loro condotta, eccitarono la di lui compassione fino ad essere raccolti quasi altri membri della nostra famiglia. Vitto ed asilo fu loro accordato: né se ne chiese in compenso che leggerissima opera o di penna, o di ministerio nei rami di uficio o di industria, ne’ quali tutti il di lui animo e quello del di lui compagno non potevano a sufficienza dividersi. Ma questo amico sincero, questo partecipe delle sue fortune e disgrazie, siccome ne ricopiava in sé le virtú, cosí ne aveva i difetti, fra i quali io conto per primo quella loro illimitata fiducia. Ambidue pertanto si riposavano con queste serpi nel seno. Io prevedevo già di quel letargo fini funesti, ma era troppo fanciullo per tentare di trasfondere in alarmi i miei terrori; o, tentandolo, per esserne udito. Uno di que’ cinque cortegiani imprese a coltivare il mio spirito con lezioni periodiche di lingua latina, e geografia. Il mio profitto però non corrispose mai esattamente al di lui impegno; perché in quelle conferenze non obbedendo all’autorità del magistero che il mio corpo soggetto, l’anima libera e sdegnosa vi era sempre straniera, e ricusava confidenza a colui al quale non aveva accordato mai stima. Tale io m’era sin d’allora, o dolcissimo amico, e tale mi sono quindi conservato.

Si avvide finalmente mio padre di quale scarso progresso io dessi prova in istudj né contrarj al mio genio, né punto eccedenti la mia capacità; onde risolse di farmene cessare e di rivolgermi altrove. In quel tempo egli si era addato al commercio, e nel porto allora fiorente di Civitavecchia molti legni caricavano e scaricavano a suo conto. Per le quali cose conoscendo ben presto il bisogno di avere quasi un altro se stesso, cui addossare nel futuro la soma di tanto travaglio, non seppe vedere oltre a me altra persona piú adatta alle sue mire, ed ai desiderj del suo cuore. Mi progettò la vita del viaggiatore, ed io ne fui fuor di me per la gíoja. Fu noleggiato sollecitamente un legno, e si andavano allestendo i preparativi, perché io fossi presto in istato di partire per la Spagna, fissata mèta di quel primo mio viaggio.

Dodici anni io allora contava, età la piú adatta all’ingresso in qualsivoglia carriera; ed a commoversi per le immagini unisone colle nascenti passioni. Puoi pertanto dipingerti in mente ogni idea di umana gioia e consolazione: non mai saprai giungere a quella di cui tutto m’inondava il cuore la vista del mio crescente bagaglio e finalmente del cappotto a cappuccio, onde io doveva fra giorni difendermi dalla marina umidità e dall’invernale rigore. Ma oh Dio! Sogni! fumo! vanità! Una improvvisa penuria di cereali insorse in Levante: e le spedizioni di frumenti, per Tunisi, Algèri, Tripoli e per le altre coste di Affrica offrivano alla avidità de’ commercianti piú lusinghieri profitti. Mio padre ne fu anch’egli allettato, e tosto a tre bastimenti di granaglie diverse egli affidò la massima parte delle sue sudate sostanze. Uno di questi legni era appunto quello già destinato per me; che non fui giudicato esponibile ad un viaggio per Barberia. Tre de’ nostri cinque flagelli vi furono fatti montare per sopraccarichi, o condottieri di poliza; ed allorché fu giunta l’ora di far vela, pieno di amarezza io montai sopra una torre che sorgeva sul nostro palazzo; e da quella sommità vidi pigliar vento e partire i tre legni, che via mi portavano il cuore.