Questa lettera di Gioacchino Belli a Gaetano Bernetti è stata scritta a Roma il 3 ottobre 1816. Ecco il testo:

Gentilissimo Sig. Gaetano Bernetti.
Penetrato da un intimo senso di dispiacere mi dispongo a trattenere per brev’ora sopra un soggetto, del quale od al suo figlio, o a me dovrà risultare una dose non leggiera di scorno e disonore. Chi di noi due ne sia meritevole Ella potrà giudicarlo.
Ognuno sa che nel passato tempo una catena di circostanze sinistre mi aveva assoggettato alla necessità di provvedere alla mia sussistenza e al mio ricovero nel modo il più decente, ed insieme più adeguato alla povertà che mi opprimeva. I miei parenti a S. Lorenzo in Lucina mi offrirono il vitto, e mancando io ancora di un tetto che mi ricettasse, i miei parenti medesimi pregarono il suo figlio a procurarmi una camera ai Capuccini la quale ottenni di fatti mercè i buoni uffici di lui uniti agli altri, anch’essi efficaci, del Padre Lodovico Micara. Fin qui Peppe merita da me ogni gratitudine, e la riscuote. Ricevuto io ai Capuccini, incominciò Peppe ad invitarmi alla sua tavola, e sino che questi inviti furono pochi, io gli ricevei senza contrasto, e con soddisfazione. Ma quando vidi esser’essi molto replicati, opposi a loro reiterate ricuse, allegando la troppo accresciuta spesa, che Peppe soffriva per questa ragione, ed il malcontento, che Ella, e la Signora Teresa ne avrebbero risentito. Egli rispondeva sempre, che il suo proprio peculio lasciatogli per legato dal nonno poteva da lui essere impiegato nel suo maggior piacere, e che perciò i suoi genitori non avrebbero avuto di che dolersi del suo procedere a questo riguardo. Io ciononostante resisteva, e non poche volte dovemmo insieme altercare per dei pranzi de’ quali in fondo io non poteva aver gran bisogno, stante la esibizione di mio zio, da cui poteva riceverli egualmente, e di più senza peso di obbligazione. Esso mio zio e la sua Famiglia possono essere testimoni della resistenza colla quale accettava io da Peppe dei favori, che erano poi realmente favori, e che mi pareva allora provassero in Peppe un cuore tutto benfatto ed amico.
Confesserò poi, che ogni sera, cenando il suo figlio, cenava io ancora con lui, e ciò non mi cagionava ripugnanza giacchè una certa delicatezza di Peppe gli faceva assicurarmi non causargli io alcun aggravio, mentre la cena che gli veniva da casa, poteva benissimo essere e per lui e per me sufficiente, essendo essa in modo abondante, che, non che uno, due potevano comodamente saziarsene. Io dico questo far strada a ciò che mi resta a dire, non per diminuire in Peppe la benignità dell’atto, e quella che mi pareva, e sembrata sarebbe a tutti amorevolezza. Gli donai in quel tempo una borsa da danari.
Andando in questo modo le cose, io ebbi bisogno di uno scudo che Peppe mi offrì, per riuscire in un progetto, che egli stesso Le potrà dichiarare, tralasciandone io la narrazione non già per ritrosia, ma bensì per solo amore di brevità. Eseguito io il mio progetto, e pagato uno scudo che possedeva ma destinato ad altr’uso di maggior rilievo, Peppe mi assicurò che a casa mi avrebbe poi dato quella somma senza la cui sicurezza non mai mi avrei indotto ad effettuare un passo, che alla fin fine non era della prima necessità. Giungemmo a casa, Peppe poco dopo finse di essere uscito; io lo credetti, ma uditolo poco appresso muovere, benché con qualche precauzione, la maniglia della sua porta, uscii dalla mia, e lo vidi entrare in camera: lo chiamai allora, ma egli ponendo di dentro un ostacolo al saliscende, mi rispose: un momento. Io aspettai fuori tre quarti d’ora e mezzo appoggiato alla porta e leggendo un libro per divagarmi e non perdere la pazienza, ma finalmente fuggitami questa bussai, e bussai dodici volte: mi rispose Ella Signor Gaetano? Così mi rispose Peppe Bernetti.
Partii allora col pianto agli occhi ed il veleno nel cuore… ma non parliamo più di un caso che ancora mi accende. Venne il tempo, in cui per ragioni di famiglia, Ella e la Sua Signora consorte entrarono in discussione col loro figliuolo, e fu in quell’epoca, che non ricevendo egli più dalle Signorie Loro le medesime tratte di denaro che pria, si trovò in qualche bisogno; ed io cogliendo con gioia una circostanza, in cui poteva agevolmente usargli un tratto di riconoscenza, gli offrii col cuore la metà di sette scudi che in que’ giorni un tal Lorenzo Cervia mi aveva pagati, in soddisfazione di alcuni lavori fattigli in materia di contabilità. Esso per verità gli ricusò, e non ne prese che due paoli per pagare ad un chiavaro, o falegname che fosse, una egual somma che gli doveva, ed inoltre altri sei paoli pe’ suoi minuti bisogni. Mi promise di restituirmeli, ma poi se ne scordò, o volle scordarsene ed io credei mio dovere non parlargliene più. Gli regalai in que’ giorni centoventi vedute di Roma. Un piccolo ordine posto da me nuovamente ne’ miei interessi mi presentò l’opportunità di lasciare il soggiorno de’ Capuccini, soggiorno che già dal Generale dell’Ordine mi si voleva togliere. Partii ma restai sempre amico di Peppe, presso il quale di tanto in tanto mi conduceva. Giunto poi il giorno in cui Ella condusse seco il medesimo a Bologna, e l’altro giorno in cui ambedue ne ritornarono, mi fu da Peppe partecipato il matrimonio, che erasi fitto in capo di effettuare fra sé e la giovane Carradori della Marca. Fu allora che io divenni segretario di Peppe, mentre ogni ordinario aveva a scrivere una buona somma di lettere, porzione delle quali da lui destinata a coltivare e mantenersi le amicizie contratte nel suo viaggio, e porzione a condurre la macchina nuziale che si era in testa fabbricata. Ma qui è tempo ch’io dica come un anno circa prima di quest’epoca erano stati da me prestati ad un tal Ciotti scudi sei richiestimi per fare un viaggio, e datigli da me in una circostanza, in cui erano essi la mia unica risorsa. Ciotti nel partire incaricò il suo padre allora domiciliato in Roma di restituirmeli, ma questo non volle mai scendere ad un atto di cotanta equità, dimodoché fui costretto, benché infruttuosamente, a scrivere al figlio lettere replicate per ottenere il rimborso di una somma assolutamente a me necessaria. Ciotti non rispose, viaggiò, e non ne seppi più nuova.
Tornando ora al nostro proposito, dirò che Peppe rivenuto da Bologna mi manifestò aver trovato in Loreto un certo Ciotti, il quale lo aveva molto ben servito presso la contessina, e col quale voleva mantenere un carteggio acciò seguitasse ad essergli nell’affare un mediatore, ed interprete. Udito io il nome del Ciotti feci a Peppe varie interrogazioni dirette ad assicurarmi della identità di quegli con quel Ciotti, a cui aveva prestato il denaro; ed avendo dalle risposte di Peppe rilevato esser quel desso, lo informai del fatto fra noi due accaduto, e della determinazione, in cui mi fissava di volere al medesimo rammentare il suo debito.
Peppe però, che temeva che Ciotti, sospettando essere a me venute da lui le informazioni della sua attuale dimora, gli ricusasse per vendetta gli aiuti, che ne sperava, mi pregò a desistere dal mio proposto, assicurandomi che egli stesso fra due giorni al più mi avrebbe soddisfatto della somma dal Ciotti dovutami, somma che diceva si sarebbe poi ritenuta in affare, che il padre dello stesso Ciotti aveva affidato a V. S. Io trovai buono il partito, non scrissi a Ciotti, seguitai però a scrivergli letteroni che Peppe ricopiava per suoi, seguitai a scrivere altre lettere a Conti, Marchesi, Contesse, Marchesane, ad altri nobili e plebei; seguitai a scrivere processi alla Contessina Carradori; insomma restai aspettando il risultato della promessa di Peppe per due lunghi mesi, senza che esso me ne facesse più parola, e senza che finisse mai il mio impiego di segretario. Finalmente gli ricordai ciò che dovea ricordargli, e fu allora che il Sig. Giuseppe mi rispose essere io in libertà di scriver a Ciotti giacché cessata la probabilità del matrimonio, non temeva più che quegli potesse intorbidarglielo. Ecco una bella azione da bagherino!
Dice Bernetti per redimere il suo onore in un fatto, che tanto glielo adombra, che invece di sei scudi mi regalò un vestito. Il regalo del vestito è vero, ma ne son diverse le circostanze. Egli inventa di avermelo dato nuovo e buono, ed io rispondo che era di un cattivo panno rivoltato e ritinto, e tanto ciò è vero, che portando per la vecchiaia un flagello di tarlature, queste scoprivano la corda del panno molto più chiara che il pelo esterno, dal che è facile rilevare essere stato tinto con un colore più scuro di quello, che il panno aveva in origine. Ma non è questa la circostanza più solenne, che mi prefiggo prender di mira; eccola. Bernetti vuole avermelo donato in luogo dei sei scudi — falso, falsissimo, invenzione artificiosa, ma di uno sciocco artificio. Il vestito io lo aveva ricevuto due mesi prima che si partisse il Bernetti da Roma, ed in tempo che io stava ancora ai Capuccini. Dirò come fu. Bernetti mi macchiò una sera di olio il mio unigenito abito; macchiatolo, ne ingombrò le imbrattature di raditura di muro, e mi diè a portare un suo vestitaccio (che è quello, di cui parliamo) sintanto che il gesso avesse intieramente sorbito l’olio, del quale era coperto. Rimandato esso alfine, Bernetti mi richiese il suo abito, io glie lo resi, e fu finito; ma volendo io poi giorni dopo far dare dal sarto una restauratina al mio abito che ne aveva anzi che no bisogno, pregai Peppe a rinuovamente prestarmi quel suo, ed egli urbanamente mi concesse la grazia. Tornò l’abito dal sarto, pagai a questi alcuni paoli del mio, e restituii a Peppe l’abito provvisorio, che mi fu anzi da lui dimandato prima che avessi avuto agio di adempiere al mio preciso dovere. Passarono molti giorni sino a che una mattina lamentandomi io della mia mala sorte, e della impotenza di farmi un paio di stivali per rimpiazzare i miei invalidi alla fatica, Peppe mi disse che invece di stivali mi avrebbe donato un vestito. Cercò, ricercò allora nel suo guardaroba, e finalmente com’è naturale, la scelta cadde sopra l’abito peggiore, su quel tale abito di ripiego, il quale si vuol far passare per nuovo, quandoché fattolo io stimare da una Ebrea d’ago d’oro, me lo apprezzò tre paoli e, per dir come disse, tre giuli. Or presto a bomba che si raffreddano i ferri. E come può star salda la faccia di un uomo, mentre la bocca proferisce menzogne simili e somiglianti imposture? Parlo della menzogna crassa e marchigiana, che quell’abito donato nel tempo dei ritiro di Peppe e mio, sia una rappresentanza de’ scudi sei promessimi dopo il felice viaggio di Bologna.
In primo luogo già io non sarei stato di pasta così tenera da sorbirmi tre paoli per sei scudi; secondariamente poi, allorché dimandai a Peppe qualche nuova de’ sei scudi promessi e svaniti, egli non mi avrebbe altrimenti risposto esser’io in libertà di scrivere a Ciotti, ma sarebbe stato sollecito a pormi avanti agli occhi il vestito, che, secondo quel che dice adesso, doveva avermi regalato poco prima: ma forse che un misto di delicatezza e moderazione lo avranno in quel momento ritenuto dal farmi una risposta, che ora né moderazione né delicatezza gli fa risparmiare; e sono medesime le circostanze giacché sei scudi gli chiedeva allora, quattro glie ne chieggo adesso, miserabili quattro scudi, de’ quali narrerò la storia, e pe’ quali Peppe non ha temuto né teme d’ingiuriare un amico, trattandone la fama come si tratterebbe una ciabatta, od il lezzo stomachevole delle cloache.
Prima però di scendere a cosiffatta narrazione, non sarà fuor di proposito mandar innanzi un altro raccontuccio curioso, il quale potrà, se non altro, dare una idea del peso morale di un personaggio, che essendo nel caso nostro il protagonista della commedia, può pretendere (e lo merita) che il suo carattere sia ben dettagliato, posto nel vero suo lume, e colorito scrupolosamente sin che vi sieno colori sulla tavolozza.
Chi ignorerà esser stato Peppe involto in una passione che per più anni lo ha dominato, diretto, informato? Ora ascolti, Signor Gaetano gentilissimo; questa passione gagliarda, lunga, imperiosa; questa passione, che ha dato luogo a fatti seri, questa passione che ha resistito a consigli, a rimostranze, a rigori, e tutti paterni, che è un bel dire; questa passione infine, che pareva inestinguibile, almeno per forza umana, questa passione vide l’interesse, e si estinse. Peppe partì da Roma innamorato morto d’una; tornò da Loreto innamorato morto di un’altra; e chi fece il miracolo? Venticinquemila scudi, che si speravano di dote. Ed eccoti altre smanie, eccoti nuove impazienze, eccoti diversi acciecamenti; la prima donna affatto dimenticata, tutti pensieri per la seconda. Ma questo per avventura non è biasimevole, giacché il cuore umano rassomigliando in tutto ad un barometro, è così esso soggetto ad ogni minima esterna impressione; che se incostanze di tal natura son difetti, se ne incolpi più la umana costituzione che l’umano carattere. Si maneggiò, come dissi di sopra, l’affare, si trattò calorosamente il matrimonio, ma questo non volle accadere, e si finì. Sgombrato così il cuore da una passione, che una certa specie di speranza vi aveva solamente intromessa, si trovò subito suscettibile di nuovi riempimenti, ed eccoti in ballo l’amore antico che ali riprende e vigore.
Giunge la nuova che l’amata si dona ad altro marito; si chiede a Peppe un certo consenso, che si diceva abbisognare; Peppe lo niega; l’autorità paterna ci pone le mani; è prestato il consenso fatale; si fa secreta l’istanza per un’accettazione ai Camaldolesi di Frascati; si ottiene; si sta per partire; io ricevo l’ultimo amplesso dell’amicizia; pianti, disperazione, convulsioni, diavolerie, e tutto questo in pochissimi giorni. Finalmente il giovedì un’improvviso sgorgo di sangue arresta e partenza e progetti. Il sangue cresce; si affaccia una certa tossetta; il venerdì si cammina curvi, col volto giallo e nero; le forze s’indeboliscono; s’incomincia a disperare della salute. Io che vedo tutte queste cose, m’intenerisco, scordo i passati torti, e vado il venerdì notte a fare la nottata al malato, portandogli biscottini ed altro, delle quali cose però ricevei pagamento. Ora senta questa, che è bernesca o bernottesca davvero. Giunto io a’ Capuccini mi viene avanti non un uomo, ma una larva, fiacca sparuta, e questa era Peppe, che mi abbraccia, e mi confida dover uscire la notte per condursi ad un abboccamento, che doveva essere l’ultima consolazione della sua vita. Io gliene mostro i pericoli e le difficoltà, ma tutto inutile: il bisogno d’abboccarsi era forte, e perciò invece di cedere, dimandò a me Peppe soccorso. Non sapendo che fare, io glielo promisi, ed ecco come feci. Me ne andai giù dal portinaio Fra Bernardo, che è un buon fraticello, e gli sciorinai la seguente novelletta. Fra Bernardo mio, ho bisogno di un piacere. — Comandi, Signor Giuseppe — (perché io mi chiamo Giuseppe) — Dovendo dimani prima di giorno andare qui vicino in un luogo, così per tollerare meno incomodo resto questa sera a dormire con Peppe, e dimani quando sarà ora verrò giù, vi desterò, e voi, che siete tanto buono, mi farete il favore di aprirmi la porta, affinché possa uscire. Il frate mi rispose di sì, ed io tornai sù. Si cenò, e dopo molte chiacchiere raggirate tutte sopra un soggetto, si andò vestiti a prendere un po’ di riposo. Battuta l’ora disegnata per l’abboccamento, ci alzammo. Peppe prese il mio ferraiuolo, io presi il suo, e così travestiti scendemmo le scale, ed all’oscuro all’oscuro io bussai alla porta del povero fraticello, il quale alla voce mia uscito fuori al buio, aprì la porta del Convento, e credendo di far uscire Belli, fece uscire Bernetti. La bella fu, che mentre esso usciva, il frate gli domandò più volte come stava Bernetti; ma egli non rispose, e facendo comparire me poveretto un malcreato, se ne andò per prudenza senza aprir bocca. Io me ne tornai su pian piano, e nel salir le scale udii che diluviava: dissi allora: povero ferraiuolo mio! ed entrai in camera. Eccone un’altra più bella. Verso giorno i frati si alzarono pel mattutino, e quanti ne passavano avanti alla porta della mia stanza, bussavano e dicevano: Come state signor Giuseppe? (perchè V. S. sa, che anche il suo figliuolo si chiama Giuseppe). Ed io che non era Bernetti, mi contentavo o di non rispondere quando le bussate leggiere potevano far supporre che non avessi udito, o quando esse erano forti, mandare un certo suono inarticolato, che sembrava un muggito di buona grazia, e così siccome i lamenti presso a poco somigliano in tutte le voci, i frati mezzo soddisfatti e mezzo no si partivano. Si fece finalmente giorno; venne Bernetti bagnato come un pulcino; io gli aprii, ed egli entrò contento come una pasqua. Ma eccoti una bussata — Chi è? — Amici. Era un frate. Rispondo: un momento; e presto fatto spogliare Bernetti sino ad un certo grado, per far credere che allora si vestisse, indosso il mio ferraiuolo, che per l’acqua che aveva sopra pesava dieci decine. Apro la porta; il frate entra — Come avete passata la notte Signor Bernetti? Così così — Ed io allora: per bacco! Come piove! Guardate qui, sono venuto adesso, e mi sono tutto rovinato; ed il frate poco dopo partì. Quel giorno era sabato; indovini un poco Signor Gaetano? ma già Ella lo sa meglio di me: la Domenica dopo il suo figliuolo stava pel corso in biga con mio cugino, guidando il suo cavallo da sé, vegeto, bello robusto, e guarito affatto da una malattia, dalla quale chi scampa soffre almeno un annetto di debolezza e convalescenza.
Da quel giorno in poi è stato sempre bene, si fece crescere i baffi, spacciò patenti di cavalleria, e con sproni, e con frustini, e con cavalli fece restar me come un minchione, che non potei trattenermi dal dire evviva li matti! Gli altri fatterelli che illustrano poscia la sua carriera militare, io gli tralascierò: so che adesso fa il curiale, e taccio, perché io delli curiali ho paura.
Veniamo ora alla storia de’ quattro scudi. Era passato molto tempo, ed io me ne vivea quieto senza pensar più né a Bernetti né a Ciotti, quando una sera portatomi all’Accademia Tiberina della quale indegnamente son membro, vidi Ciotti che fra gli uditori stava seduto nella sala in cui si suol tenere adunanza. Mi accosto ad esso, lo saluto, gli do il bentornato, e, finito il trattenimento poetico, mi unisco con esso, il quale, ponendosi il discorso degli antichi sei scudi, mi disse che l’indomani me ne avrebbe soddisfatto. Non mi feci sfuggire il momento della sua favorevole disposizione, andai, e riebbi a conto due scudi: gli altri quattro poi non potei più riscuoterli, perché Ciotti rimase ben presto senza quattrini. Si stava così, allorchè, incontratolo fra le tante volte, mi disse, che avendo prestato a Bernetti quattro scudi, e dovendo egli presto partire da Roma, ciocché ancora non si è effettuato, avrebbe ingiunto al Bernetti medesimo di riguardar me come suo creditore, discorso che al Bernetti fu fatto dal Ciotti in mia presenza il giorno di S. Giuseppe 19 Marzo del corrente anno 1816. Bernetti accettò la girata, e si confessò mio debitore di scudi quattro, i quali mi disse potev’andare a riceverli in sua casa anche in quel giorno se avessi voluto. Io però fui moderato, e volendo usare delle convenienze con chi mi era stato ed ancora mi era un po’ amico, non mi portai dal medesimo che la mattina del giorno 21. Peppe non c’era. Vado il giorno dopo; Peppe non c’era. Vado il terzo giorno; Peppe non c’era; e sempre con appuntamento. Vieni oggi… vieni domani… Frattini mi deve dare certi danari… non me li ha dati… Da un giorno all’altro si passò ad una settimana all’altra, e da una settimana all’altra ad uno all’altro mese, giacché non era più Frattini che compariva, ma un certo Pucci, il quale assicurava Bernetti aver prestato danari. Insomma trenta o quaranta appuntamenti mi furono da Peppe dati, ne’ quali, essendo ogniuno composto di un’ora di attenzione, spesi inutilmente quarant’ore del mio povero tempo. Finalmente stanco, e più che stanco, ricorsi a Ciotti come primo creditore di Peppe, dal quale esso Ciotti condottosi, mi riportò in risposta che io era già stato pagato, che aveva già ricevuto da lui circa a cento scudi, che si faceva ben meraviglia del mio non delicato procedere, e che se pel mio meglio non taceva, sarebbe stato costretto di cavarmi un certo conto, che mi avrebbe fatto di creditore divenir debitore. Una eguale risposta con qualche cosetta di più denigrante ha fatto Ella, Signor Gaetano, al medesimo Ciotti venuto da mia parte a reclamare contro le villanie di suo figlio, il qual vuol conteggiarmi i pranzi che mi ha dato. Non so se dal contesto di questa lunghissima lettera potrà apparire nulla, ch’io possa opporre ai benefici del suo figliuolo garbato: voglio a Lei rimettere l’incarico di fare il confronto e il conteggio: forse non ci rimarrei tanto allo scoperto.
Conchiudo finalmente col dire, che la condotta tenuta dal suo figliuolo per tutto il tempo della sua vita paragonata a quella, che in me il Mondo ha veduta, potrà servire di fede, di allegati, di testimoni; di sentenza a questo mio veridico e fedele processo.
Sono
Il suo servitore divoto
Giuseppe Gioachino Belli