In questo brano tratto dai Discorsi Niccolò Machiavelli difende Romolo, il fondatore di Roma, giustificando gli omicidi del fratello Remo e di Tito Tazio Sabino.

Ei parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d’un vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono con l’autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio. E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d’una republica, e che abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d’uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considerrà bene l’autorità che Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun’altra che comandare agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de’ Tarquini, dove da’ Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo d’uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e tirannico. Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises, Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di republiche, e’ quali poterono, per aversi attribuito un’autorità, formare leggi a proposito del bene comune: ma li voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno, non sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per consequente, di forze e d’imperio, fu, ne’ suoi primi principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch’egli aveva trovati d’Agide, dove si vedeva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria se non diventava solo di autorità; parendogli, per l’ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse stata la potenza de’ Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche. Perché, essendo, dopo tale ordine, assaltato da’ Macedoni, e trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è necessario essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo.

Machiavelli, Discorsi, Libro I cap. 9